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IL MIO NOME E' DENG TIANNUO

11.11.2013 12:42

 

IL MIO NOME E' DENG TIANNUO

 

Questa è una storia di vita, Una storia vissuta in Cina per trent'anni.
 
Fu li che cambiai il mio nome, o meglio, non solo cambiai il mio nome, ma lo diventai Deng Tiannuo per sentirmi cinese fra i cinesi..
 
Era il lontano 1968. 
 
A quel  tempo la Cina era nel mezzo della Rivoluzione Culturale e Mao a Pechino era la scintilla che accendeva la fantasia della gioventù occidentale ispirata dal suo messaggio antiautoritario. 
 
Vista da lontano, la Cina appariva come il paese più creativo e Mao un genio impegnato nel più grande  esperimento  di  ingegneria  sociale  che  l'umanità  avesse  mai  tentato:  la  ricerca  di  una società più giusta e più umana. 
 
Da  che  mondo  è  mondo  le  giovani  generazioni  si  sono  sempre  lasciate  affascinare  dalle  idee nuove  e  spesso  hanno  dimenticato  di  considerare le  conseguenze  che  quelle  causano  nella pratica.  La  mia  generazione  non  fu  da  meno  e  molti  furono  affascinati  dalla  grande  illusione rappresentata  da  Mao  e  dalla  sua  Cina.  Se  il  nostro  era  un  mondo  vecchio  e  imperfetto,  se  le speranze del passato erano state frustrate, ecco una nuova occasione. La Cina non sarebbe stata un'altra Unione Sovietica o un'altra Cuba. La Cina era qualcos'altro. 
 
E così la Cina divenne un mito, appunto "il mito dell'altro". 
 
Io  volli  andare  a  vederlo  coi  miei  occhi  e  mi  preparai  studiando  la  lingua,  la  storia,  la  politica cinese e dandomi un nome cinese, Deng Tiannuo, in modo da essere meno straniero quando mi 
fosse finalmente toccato di vivere fra cinesi. 
 
Mi ci vollero anni di attesa, perché a quel tempo solo pochi  fidati ed eletti venivano ammessi in "paradiso". Dovetti aspettare che Mao morisse e che Deng aprisse le porte della Cina per far rotta 
con la famiglia verso Pechino. 
 
Ci arrivai nel gennaio 1980 e mi  fu subito chiaro che la  realtà era meno affascinante dei sogni. Andai a cercare quella speciale forma di socialismo che si diceva fosse stata costruita in Cina, ma non  trovai  che  le  rovine  di  un  esperimento  fallito  malamente.  Andai  a  cercare  quella  nuova cultura  che doveva  esser  nata  dalla  rivoluzione  e  non  trovai  che i mozziconi  di  quella  vecchia, 
splendida cultura che nel frattempo era stata sistematicamente distrutta. 
 
Fra le varie porte che Deng aveva aperto c'erano anche quelle dei campi di concentramento, dei campi di "rieducazione attraverso il lavoro" in cui almeno venti milioni di intellettuali erano finiti a  causa  del  loro  disaccordo  col  regime.  Incominciai  così  a incontrare  quelle  che  erano  state  le vittime della follia di Mao e ben presto capii che il sogno di Deng Tiannuo era stato l'incubo della Cina. 
 
Leggere, a  tavolino, nell'ovattata atmosfera della Columbia University a New York, gli slogan di Mao,  tipo:  "Non  tagliate le  teste della gente perché non sono come i cavoli che  ricrescono", era stato  di  grande  ispirazione;  diverso  era  scoprire,  sul  posto,  che  un  sacco  di  teste  erano  state tagliate,  che  un sacco  di  gente  era  stata  torturata  e  che,  alla  fine  della  cosiddetta  "Rivoluzione Culturale", la Cina era ridotta a un deserto affollato da gente impaurita e disorientata. 
 
Al  contrario  di  quella  di  Mao, la  Cina  di  Deng  Xiaoping  si  lasciava  vedere  da  vicino.  La  gente parlava  quasi  liberamente  e  per  un  po'  persino  i muri  raccontavano  storie  di  ciò  che  era 
veramente accaduto. Il "muro della democrazia" divenne una delle migliori fonti. 
 
Fu un momento particolare, un'occasione unica che non si poteva perdere e così viaggiai, viaggiai dovunque mi fu possibile, dall'angolo più occidentale della Cina, nella provincia del Xinjiang, alla punta più orientale, nella provincia dello Shandong, dalla Manciuria del Nord all'isola tropicale di Hainan nel Sud. Non sempre fu facile, perché l'atteggiamento dei funzionari comunisti cinesi non era in fondo molto diverso da quello del mandarino dell'Ottocento che, incontrando per la prima volta uno straniero che parlava cinese, si rivolse al proprio seguito e chiese: 
 
"Chi è il traditore che gli ha insegnato la nostra lingua? " 
 
Tentai  di  vivere  in  una  normale  casa  cinese,  in  un  quartiere  cinese,  ma  mi  fu  assolutamente impossibile.  Gli  stranieri  possono  abitare  solo  entro il  recinto  del  cosiddetto  "quartiere diplomatico", le cui porte d'ingresso sono giorno e notte guardate da poliziotti armati e dove ogni movimento di chi entra e di chi esce viene registrato. 
 
Cercai di conoscere dei cinesi, di avere rapporti con loro, ma anche questo si dimostrò complicato perché  ogni  contatto  "non  ufficiale"  fra  uno  straniero e  un  cittadino  della Repubblica  Popolare 
Cinese è un contatto "illegale", anche se nessuno ricorda la legge che sostiene questo. 
 
Un  anziano  e  colto  signore,  che  avevo incontrato  un  paio  di  volte  poco  dopo  essere  arrivato  a Pechino  e  da  cui  volevo  prendere  lezioni  di calligrafia,  mi  fece  sapere,  attraverso  un  comune conoscente, che non dovevo più farmi vivo con lui. Era stato chiamato dalla polizia e gli era stato detto che  poteva,  sì,  continuare  a  vedermi,  ma  a  condizione  che  ogni  volta  scrivesse  un rapportino su quanto s'era  fatto e s'era detto. Per lui questa era un'umiliazione troppo grossa e così non ci si vide più. 
 
Nella  Cina  di  oggi  un  giornalista  straniero  che  voglia  incontrare  un  qualsiasi  funzionario  o semplicemente vedere uno scrittore, un pittore, un professore universitario o un operaio di una fabbrica  deve  anzitutto  presentare  una  domanda  scritta  a  un  apposito  ufficio.  Se  il  permesso viene accordato, l'incontro si svolge nella solita stanza dei ricevimenti che ogni ufficio,  fabbrica, scuola, ospedale o caserma possiede, dove  tutti stanno seduti su poltrone coi pizzi bianchi, alla 
presenza del segretario del partito locale, con qualcuno che prende nota delle domande e delle risposte. Questa procedura mi fece presto passare la voglia di incontrare la gente passando per la via ufficiale e così mi misi alla ricerca di una mia via per conoscere la Cina. 
 
Cominciai  a  viaggiare  in  treno,  ma  non  negli  speciali scompartimenti  a  "sedili  morbidi"  per stranieri,  bensì  in  quelli  a  "sedili  duri"  dove  stanno  i  cinesi.  Cominciai  a  girare  in  bicicletta 
attraverso  le  province  incontrando  così  gente  comune,  ascoltando  semplici  contadini  che raccontavano le storie dei loro villaggi e delle loro famiglie. Essendo interessato ai vecchi giochi e 
passatempi di Pechino, mi misi ad allevare grilli e piccioni e a frequentare i piccoli mercati della capitale,  dove  incontravo  regolarmente  dei  vecchi  che  m'insegnavano  quell'arte  antica  di  fare "concerti" con gli animali. 
 
Lentamente  venni  a  conoscere  una  splendida,  umana  Cina,  una  Cina  su  cui  non  avevo  molto sognato,  ma  una  Cina  molto  più  vera  e  particolare  di  quella  che  i  funzionari  del  governo  e  la 
stampa del regime presentavano al mondo esterno. 
In  questo  modo  feci  anche  le  mie  piccole  scoperte:  in  Tibet,  per  esempio,  mentre  il  resto  del gruppo con cui ero costretto a viaggiare andava a visitare la solita fabbrica "Bandiera Rossa", io, 
con  una  bicicletta  presa  in  prestito,  riuscii,  da  solo,  a  raggiungere  il  posto  dove  avvenivano  i "funerali del cielo", un'antichissima cerimonia che le guide cinesi dicono non esista più e in cui i corpi dei morti tibetani vengono tagliati a pezzi e dati in pasto agli avvoltoi. 
 
Ma,  così  facendo,  lentamente  mi  allontanai  dalla  via  che  mi  era  stata  assegnata  e,  come nella favola del castello magico in cui l'ospite sa che può fare  tutto  tranne che aprire una certa porta 
perché  altrimenti  libererebbe  gli  spiriti  malvagi,  io  non  potei  che  aprire  quella  porta.  E puntualmente gli spiriti malvagi mi saltarono addosso. 
 
Dopo più di quattro anni in Cina,  fui arrestato, interrogato e per un intero mese, come  fossi un cinese,  fui  rieducato.  Eppure,  proprio  perché  venni  trattato come  un  cinese,  mi  fu  data  la 
straordinaria possibilità di un ultimo, eccezionale viaggio: questa volta nel cuore di tenebra della Cina.  Improvvisamente  mi  trovai  come  inghiottito  nel ventre  della  balena  e  costretto  a  fare l'esperienza  di  quel  potere  poliziesco  di  cui  avevo  solo  sentito  parlare  e  che,  nonostante  gli enormi cambiamenti avvenuti di recente nel paese, resta il terrore di un miliardo di cinesi. 
 
Alla fine, accusato di un crimine che non avevo commesso, fui espulso. 
 
Lu  Xun,  il  grande  scrittore  della  Cina  prerivoluzionaria,  l'aveva  già  detto  alcuni  decenni  fa: 
 
"Quando vuoi affogare un cane, accusalo d'avere la rabbia". La mia "rabbia" è stata la pretesa di rompere  il  muro  che  mi  separava  dalla  realtà  del  paese.  
 
Il  mio  crimine  è  stato  quello  di  aver scritto di una Cina non addomesticata.  Il mio crimine è stato l'aver cercato una  via d'uscita dal labirinto di proibizioni e tabù che avrebbero dovuto tenermi lontano dalla gente. 
 
Il mio crimine è stato l'aver provato a essere un uomo fra uomini, l'aver cercato di scrollarmi di dosso quell'insopportabile sensazione di essere sempre uno straniero fra cinesi. 
 
HongKong, 1984. 

Deng Tiannuo Liberazione italiana

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